Non ho mai avuto paura di credere nei miei sogni.
All’età di tredici anni, guardando un documentario su una missione umanitaria in Sudamerica, avevo già deciso: “Da grande farò quello.”
Studiai, guadagnai i soldi del biglietto aereo lavorando tutti i sabati in un negozio superchic di Torino e realizzai il mio sogno.

Non ho mai creduto al mito di aspettare la pensione per fare ciò che ci appassiona. Quella è una favola.
Il mio migliore amico – col quale avevamo progettato di partire per l’Africa insieme, una volta laureati – morì una notte di settembre in un incidente in moto, all’età di 26 anni. Ricordo che una notte guardai il cielo, lo vidì lì e gli dissi: “Ho capito, Michele: in Africa ci andrò io, ed è anche meglio che mi sbrighi, prima che ti raggiunga senza aver combinato niente di buono in questa vita.”
Andai a cercare quell’appunto scritto su un foglietto: VIDES – Volontariato Internazionale Donna Educazione e Sviluppo.
Fu l’appunto della svolta.
Allora c’era un ramo del Vides a Torino, telefonai a una certa Suor Delia e le dissi: “Vorrei fare un’esperienza di volontariato in Africa. Cosa devo fare?” “Abbandonare l’aspettativa di poterlo fare davvero in Africa e prepararti per partire.”

Di lì a poco iniziai un cammino di preparazione di un anno, che mi fece arrivare al mese di maggio carica di energia come un atleta prima di una gara. Durante l’incontro finale a Bologna con la responsabile del Vides mi fu comunicato il paese in cui avrei fatto il primo mese di volontariato della mia vita: il Kenya, Missione delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Makuyu. Ero stata fortunata: fu la prima volta in cui pensai che la vita è bella.

Era il 1999, epoca in cui la solidarietà non si urlava sui social network per cercare popolarità; il volontariato si faceva in silenzio, umile tra gli umili, e si tornava a casa con la sensazione di essere un’altra persona. L’esperienza restava una cosa tua, insieme alla sensazione che, donando e toccando con mano la povertà, guarisci prima di tutto te stesso.
L’aereo atterrò a Nairobi la sera del primo giorno di agosto; sulla jeep che ci portava a Makuyu saltando su buche di terra rossa, io e i miei compagni di avventura, provenienti da diverse parti d’Italia, non riuscivamo a renderci conto di dov’eravamo. Il buio nero delle notti africane confonde e toglie la possibilità di vedere, lasciandoti impreparato a ciò che troverai al risveglio.

Mi svegliai sentendo risate e gridolini, così mi affacciai timidamente alla porta dello stanzone che fungeva da dormitorio: bambine urlanti correvano da tutte le parti, un cane spelacchiato mi guardava curioso da un cespuglio, una suorina magra che sembrava uscita da una rivista delle missioni mi venne incontro: “Welcome to Makuyu! Karibu!”.

Due giorni dopo mi sentivo già a casa in quella missione che ospitava le bambine di un orfanotrofio di Nairobi arrivate qui pochi giorni prima dopo una notte di paura, quando alcuni malviventi avevano assaltato il loro edificio e le suore le avevano nascoste nello scantinato per non essere uccise.

L’orfanotrofio era tutto da costruire, c’era tanto da fare. Inoltre, il pomeriggio arrivavano i bambini dei villaggi, chilometri a piedi per poter giocare e mangiare quello che in alcuni casi era l’unico pasto del giorno, mais e fagioli di cui alcuni bambini si privavano per portarne a casa ai genitori o ai fratellini e sorelline.

Le suore ci portarono a visitare altre missioni dei paesi limitrofi quali Embu e Thika, quest’ultima sede della famigerata famosa Del Monte, noto marchio californiano il cui motto inizialmente era “Non un marchio, una garanzia.” Mangiammo dei piccoli ananas appena raccolti, che vendevano in un chioschetto e chiamavano “The African ice-cream”: incidevano in più punti l’ananas privato della buccia, lo tenevi in mano dalla rosetta formata dalle foglie e ne mangiavi i pezzettini incisi, uno alla volta.
Andammo anche dai Masaai, che le suore della missione aiutavano con le cure dentistiche.

Visitammo scuole e altre realtà, e io mi sentivo sempre più a casa al punto che fui l’unica a non prendere la diarrea del viaggiatore, seppur mangiando mais e fagioli dalle ciotole (luride) dei bambini. Più passavano i giorni, più mi liberavo di strati di cose inutili accumulati negli anni: pregiudizi, paure e la necessità di truccarmi sempre prima di uscire.
Il ricordo più vivo che ho di quel periodo fu quando tornavamo alla nostra camerata con la torcia perché le suore spegnevano i generatori e si rimaneva al buio alle otto: il vento muoveva le palme e le foglie dei banani e ci scorreva sempre un brivido sulla schiena: “E se stanotte arriva qualcuno e ci uccide tutti?”
Già allora, però, vivevo con la convinzione che, se è il tuo destino, muori giovane in casa tua come in Kenya, per cui scacciavo il brivido e andavo a dormire felice di essere dove volevo essere, a fare ciò che avrei sempre voluto fare.

Una sera un ragazzo prese la chitarra e si mise a cantare I wish you were here dei Pink Floyd, e stavolta il brivido mi venne per un altro motivo: era la canzone che mi mandò Michele, registrata su una cassetta e cantata e suonata da lui, l’anno prima che morisse. Scappai in mezzo al cortile, al buio, fissai quel mare di stelle e mi scese una lacrima: “Michi, siamo qui tutti e due!”
Quando qualcuno finisce questa vita lo porti con te ovunque, e lui troverà sempre il modo per farti capire che c’è, che in realtà non è mai morto. Ti sta solo accompagnando in silenzio.

L’esperienza più forte fu quando ci portarono a visitare Korogocho, baraccopoli alla periferia di Nairobi che mi lasciò senza parole per un giorno intero. Più del cinquanta per cento della popolazione di Korogocho è sieropositiva.
Camminammo in mezzo all’immondizia, ai ratti, alle baracche di lamiera o costruite con bidoni di acqua ritagliati e cuciti insieme al cartone in questo slum ai piedi di una enorme discarica nella quale gli abitanti di Korogocho vengono a cercare i resti dei pasti degli aerei. Bambini che sniffavano colla si prendevano gioco di noi mentre incedevamo a passo spedito verso l’abitazione di Padre Alex Zanotelli.

Padre comboniano silurato da una connection partiticovaticana perché scomodo, Padre Zanotelli visse dodici anni all’interno di questa baraccopoli:
“Sentivo il bisogno di fare un’esperienza di immersione in una situazione che mi riportasse alla realtà e mi facesse vivere come vivono i poveri. Il consumismo e il materialismo mi si erano infiltrati nelle ossa: ne ero compenetrato. Ed ero erede di un cattolicesimo barocco.
A Korogocho salta tutto, salta la tua filosofia (ero arrivato quasi al dottorato), saltano i tuoi schemi teologici. Non riesci più a capire nulla, tutto va in pezzi.
Quando vedevo migliaia di ragazzine che andavano a prostituirsi in città, negli alberghi, per guadagnarsi qualcosa per poter sopravvivere, mi domandavo:
“Io sarei il prete casto e illibato che può celebrare la messa?
Eppure io sono un prete bianco, parte di questo mondo ricco che obbliga queste ragazzine a prostituirsi. Io sono a posto, loro no! Io sono puro, loro impure!
Io posso accedere all’eucaristia, loro no”.
Qui entri in crisi profonda.
I poveri ti lavano dal tuo materialismo, dal tuo razionalismo. E’ la forza dei poveri. Tutti i preti dovrebbero vivere questo battesimo dei poveri.
Purtroppo i più grandi nemici dell’inculturazione sono proprio i preti e i vescovi africani, perché frutto di una formazione imposta dall’alto, dal Vaticano che è una potente macchina di occidentalizzazione. Continueremo quindi ad avere preti con una preparazione romana clericale che fa dei sacerdoti piccoli lord serviti dalla comunità.
Non credo molto alle terapie della psiche. Sono uno di quelli che credono che è la vita stessa, vissuta in tutta la sua interezza, che ti può guarire.
E la splendida gente di Korogocho che mi ha accolto, che mi ha travolto nel turbinio dei suoi drammi, è stata per me meglio di uno psicologo“.
Libro: Alex Zanotelli, “Korogocho. Alla scuola dei Poveri”
Seduti in cerchio dentro una stanza minuscola, ci disse che lui, l’eucaristia, alle prostitute la dava eccome. Ci raccontò dello sfruttamento da parte di imprenditori quali Sergio Cragnotti:

Thika. Del Monte.
“Non un marchio, una garanzia.”
Le parole di Padre Alex, la sua forza e la determinazione a combattere localmente pensando globalmente, ingaggiando avvocati per restituire dignità ai poveri, formarono il mio carattere e la mia stessa determinazione, rafforzando ciò che ero sempre stata. E risvegliando il sogno che avevo da bambina.
Tornammo alla missione e non riuscii nemmeno a cenare. Mi sedetti su un muretto, i capelli accarezzati dalla brezza africana della sera, a riflettere. Allora ero decisa, non pensavo mai due volte alle cose, mi buttavo sui miei sogni a capofitto.
La missione ospitava anche un volontario a lungo termine, un infermiere che era lì per un anno a dare una mano al dispensario della missione. Ricordo che mi brillarono gli occhi: “E se donassi anch’io un anno della mia vita?”
Il mese di volontariato stava per volgere al termine, e la responsabile della missione, la veneta Suor Delfina, mi disse: “Se vuoi rimanere per un anno, potresti occuparti dell’andamento delle scuole delle nostre missioni. Pensaci.”

L’aereo riportò in Italia una ragazza nuova; andavo in giro con una maglietta coi buchi e le treccine, non mi truccavo più, e lasciai il mio lavoro del sabato al negozio superchic quando mi ritrovai a vendere un maglione di Jean Paul Gautier che costava quasi un milione di lire. Quanti avrebbero potuto mangiare, a Korogocho, con quel milione di lire?
Un sabato scrissi una lettera (a mano) a Padre Zanotelli, in cui gli chiedevo come avrei potuto fare per andare a fare un’esperienza di volontariato a Korogocho. Ero intenzionata ad andare a vivere in una delle baraccopoli più povere di Nairobi.
La risposta arrivò in una busta Air Mail da Nairobi, scritta a penna stilografica:
“Cara Elisabetta, Jambo!
Gli incontri non avvengono mai per caso. Sento che hai il desiderio di venire a Korogocho. Contatta…”
Contattare quella suora italiana si rivelò più difficile di quanto pensassi. O forse non insistetti abbastanza.
Forse, era solo il destino che aveva riservato per me qualcosa di diverso, se due anni dopo iniziai a lavorare in Albania nella cooperazione internazionale.
Quando qualcuno mi chiede chi sono, penso sempre alla Eli del 1999 in Kenya.
Quella sono io.
Ogni volta che devo prendere una decisione importante, mi ricordo di non perder di vista chi sono.
Il mio era quello che sognavo a tredici anni. Perché non era un sogno: era una decisione.
Ma per seguire quella decisione, per essere felici, ci vuole un po’ di coraggio.

17 Comments
Mi hai commossa profondamente tesoro. ???? adoro ciò che sei, adoro come lo dici, hai tutta la mia ammirazione ????
Grazie per questo bellissimo commento Laura! 🙂 Mi hai emozionata
Ho trovato questo racconto meraviglioso. Sia per il legame speciale con il tuo caro amico che ha continuato ad indicarti la strada anche dal posto in cui è ora, sia per la particolare analogia delle nostre vite per quanto riguarda il volontariato, il cambiare strada per inseguire la felicità e la voglia di portare avanti i sogni anche a costo di correre dei rischi e dover essere più coraggiosi del previsto 🙂
Grazie Vale!
Il legame con Michele continua tuttora: sembra strano, forse sarà solo suggestione, ma ogni volta che sono nel posto giusto, arriva una delle canzoni che mi aveva cantato lui. Coincidenza?
Essere più coraggiosi del previsto può solo portare sulla strada giusta 🙂
Cara Ely, ti seguo da molto anche se non commento mai. Tu sei un esempio di come si dovrebbe vivere realmente. Liberi da ogni dictat. Sto imparando per mie vicissitudini, che bisogna viaggiare leggeri nella vita. Bisogna lasciare andare, situazioni inutili. Che ci tengono legati, ad un palo con la catena. La mia è molto pesante, ma ho iniziato a segarla. Per liberarmene. Grazie per la tua gioia di vita e di libertà.
Francesca, grazie di cuore per le tue parole.
Quest’anno sono riuscita a liberarmi di tanto peso inutile, persone che mi rovinavano la vita, cose che non mi servivano più. Segare questa catena è davvero il primo passo, sempre un anello alla volta. Ti abbraccio!
Brava Elisabeth! Bisogna credere nei sogni fino in fondo: ho passato 20 anni della mia vita rincorrendoli ma sempre troppo impegnata a inseguire quello che la società dettava e a non pensare invece a ciò che mi rendeva felice. Poi un giorno mi sono chiesta: “e se alla pensione non ci arrivo? Voglio essere felice adesso.” Bellissimo racconto; ti continuo a seguire, almeno sul blog, in giro per il mondo.
Grazie Alice!
Sono uscita appena adesso dal tuo, di blog: che bello! Ho letto con avidità il tuo About me. Hai fatto una vita libera finora, sei grande! Comtinua così, ora ti seguo anch’io 😉
Ogni volta che scrivi un post come questo, ti ammiro ancora di più!
Grazie Elisa! 😀 Un abbraccio
Buongiorno Eli,
la tua scrittura è come quel tè deteinato: è buona qui (cuore), è buona qui (mente).
Ho perso un po’ le tue tracce e non so dove ti trovi adesso.
Ti avevo lasciato in Sudafrica.
Puoi fare brevi considerazioni su questa nazione?
Una recente classifica la dava in cima alle mete ideali dove trasferirsi a vivere.
Saluti da Cagliari
Paolo
Ciao Paolo!
Come stai? Grazie per le tue belle parole, come sempre – anche loro, buone qui e qui 😉
Dal Sudafrica sono poi passata in India per tornare a fare meditazione sull’Himalaya e ora sono a Torino, in attesa per ripartire. Per dove non so ancora, il Sudafrica è in testa perché sto attendendo il visto di lavoro.
Scriverò presto un post sul Sudafrica, anche se ci sono stata solo un paio di mesi per cui ancora un po’ presto per tirare conclusioni. Sicuramente è un paese in cui ci si può trasferire, potendo farlo – non è facile ottenere un visto di lavoro.
Un abbraccio e… ora ho iniziato di nuovo ad aggiornare il mio blog – finora ho solo aggiornato la mia pagina facebook.
Tutto bene, grazie:-))…
aspetto la tua utile scheda paese.
Un abbraccio.
Ciao Elisabetta. Io ero a Makuyu nella stessa missione nel 97, sempre con suor Delfina. Stesse emozioni…stessi problemi al rientro. grazie per aver messo per iscritto il tuo viaggio, mi ha fatto proprio bene rivivere un’esperienza fatta 20 anni fa e comunque ancora incisiva nelle mie scelte. Buona strada.
Ciao Andrea, davvero? Non sai quanto mi abbia emozionata leggere il tuo commento! Quindi sei stato là da Suor Delfina due anni prima di me. Anche per me quell’esperienza è stata incisiva nelle mie scelte future, e ancora oggi le faccio in base a quelle emozioni vissute a Makuyu.
Buona strada anche a te!
Ciao Elizabeth
Mi chiamo Maria e da un mese sono tornata dal Kenya, esattamente da Watamu.
Vorrei ritornare a fine Febbraio o primi di Marzo, stavolta non per vacanza ma per fare del volontariato e vivere la vera Africa. E’ la mia prima esperienza e vorrei tanto conoscere qualcuno che come me vorrebbe realizzare questo sogno e magari partire insieme.
Spero che leggerai questo messaggio.
Ciao Maria! Non conosco realtà in Kenya nelle quali potresti fare volontariato, dove sono stata io è una ong che richiede un anno di preparazione. Prova a guardare invece qui, per fare volontariato in Togo – c’è una mia amica là in questo momento:http://www.volontaritogo.org/progetti-per-i-volontari/ e su Facebookhttps://www.facebook.com/lamaisonsansfrontieres/