Una madre, è noto, conosce mille modi per farti fare ciò che vuole. Tra i tanti, la mia ha sempre avuto quello assai rassicurante di spedirmi a fare esperienza del mondo con un calcio nel sedere.
Ruvida e tagliente quanto basta per fartela detestare nei momenti di scontro, con il suo fare da stratega è capace di farti fare ciò che non vuoi, non hai voglia di fare o non avevi mai pensato di intraprendere.
Correva l’anno 1993, avevo da poco intrapreso gli studi universitari e mia madre mi consigliò con voce calma e confortante: “Non pensare di passare l’estate a non fare un tubo come al solito. Quest’anno ti cerchi un lavoro in un negozio, metti dei soldi da parte e il prossimo anno ti fai una bella vacanza-studio in Inghilterra. Ma se vuoi stare qui a oziare non c’è problema, tanto siamo noi a pagarti gli studi e a mantenerti, figurati, stai pure tranquilla e rilassata…”.
Data la mia conoscenza pressoché nulla della lingua inglese, l’idea di essere lanciata in un paese straniero da sola mi spaventava come il gatto l’acqua della vasca. Non riuscii, però, a sottrarmi alla sua decisione e decisi di fidarmi di lei.
Il motivo, ahimè, fu uno solo:

L’aereo della British Airlines aveva scaricato me e la mia valigia – un borsone dei miei genitori in fantasia tende marroni da salotto anni Settanta – all’aeroporto di Heathrow. Da lì avevo preso la metropolitana ed ero scesa a Victoria Station. Feci il viaggio fino alla stazione dei treni con gli occhi di un bambino al luna park: persone di ogni razza e colore che scendevano e salivano a varie stazioni, uomini col turbante, donne in sari, dreadlocks sulle spalle, ragazzi con la cresta, ragazze con vestiti scialbi su pance scoperte e anfibi con la zeppa.
La vista della popolazione della metropolitana di Londra mi fece provare un brivido mai provato fino ad allora: fu la mia prima sensazione di libertà.
La mia libertà, in questo caso, iniziava con una vacanza-studio in Inghilterra e una barzelletta ritagliata da mia madre dalla Settimana Enigmistica, e gentilmente regalatami prima di fare il check-in. La barzelletta raffigurava una ragazzina con la valigia sull’uscio di casa e la madre col grembiule che le diceva: “Va’ e conosci il mondo, ma fa’ che il mondo non conosca te”.
Non sapeva che, di lì a qualche anno, mi avrebbero conosciuta tutti.

Come tutte le libertà, anche questa aveva un prezzo.
Erano le otto di sera, dovevo acquistare il biglietto del treno per Margate – città di mare nel Kent – e c’erano due problemi: sul tabellone non si capiva quale treno avrei dovuto prendere, e il mio inglese era quello di tante ragazze italiane di allora, ovvero un’ammucchiata di Begin began begun, The pen is on the table e May I go to the toilet, please?
Non esattamente la scioltezza linguistica necessaria per cavarsela da sola in una stazione di Londra, alle otto di sera e con la faccia di una ragazzina della provincia piemontese che non aveva mai visto nulla all’infuori dei sui gatti (italiani) e dei compagni di università (torinesi).
“Devo essere coraggiosa e affrontare la situazione!”, dissi tra me e me. Tirai fuori tutto il coraggio che avevo dentro e mi recai alla prima cabina del telefono, per chiamare mia madre e chiederle, in lacrime, cos’avrei dovuto fare.
In fondo, era colpa sua se ero finita qui.
La colpa è sempre delle mamme, no?
“Svegliati e chiedi a qualcuno!”. E riattaccò.
Mi voltai con lo sguardo di un’orfana di guerra e approcciai timidamente una ragazza coi capelli rosa confetto e gli anfibi metallizzati:
“Excuse me… ehm… Margate train?”.
La nostra mi lesse il tabellone, mi accompagnò a fare il biglietto, mi fece il biglietto lei stessa e mi mise sul treno.
Arrivai a Margate alle dieci e trenta di sera e con un manico della valigia già rotto. Il taxi sì infilò in una bella via di case bifamiliari, Saint James Park Road.
Arrivammo davanti al cancello della mia famiglia ospitante mentre un ragazzo sulla trentina in canottiera bianca e crocifisso d’oro stava scendendo da una macchina dalla quale arrivava, sparata al massimo volume, una canzone tipicamente inglese, “Gloria” di Umberto Tozzi.
Scesi dal taxi trascinando il borsone dall’unico manico rimasto finché giunsi all’uscio di casa. Suonai il campanello e fui accolta da un donnone che sembrava un uomo e un omino che sembrava Don Lurio. E, ovviamente, dal ragazzo in canottiera.
“Welcome, Elizabeta! Lui è Marsìlo!
Sua madre è italiana, è venuto qui per salutarti, adora l’Italia anche se non ci è mai stato”.
“Hi, Marcello!”, gli sorrisi.
“Marsìlo!”, rispose lui ricambiando il sorriso.
La porta si chiuse alle mie spalle e trascinai il borsone su per le scale con la moquette rosa fino all’ultimo piano. Al piano primo si ruppe anche l’altro manico e feci il mio ingresso nella cameretta che mi avrebbe ospitata per tre settimane spostando la valigia a calci e maledicendo mia madre.
Ebbe così inizio il mio primo viaggio da sola.

I consigli di una mamma sono sempre dettati dal cuore.
Io decisi di fidarmi, e se non fosse per mia madre, è probabile che non sarei diventata ciò che sono ora: una viaggiatrice solitaria, senza alcuna paura se non di avere, un giorno, qualche rimpianto sulla coscienza.
E pazienza se oggi, alla soglia degli ottant’anni, non ha perso il vizio di comandarmi, “che hai quarant’anni ma ti comporti come se ne avessi quindici”.
In fondo, una madre che ti sprona a partire da sola è una benedizione dal cielo. Anche quando lo fa con una pedata nel sedere.
6 Comments
Fantastica questa storia! La prossima volta che ci incontriamo vengo io da te per conoscere questa donna che riesce a farti fare quello che vuole 🙂 Tra l’altro quest’anno ho scoperto che c’è anche una versione inglese della canzone Gloria praticamente identica… gloriaaaaaaaaaa
Sei la benvenuta! 😀 no dai, Gloria versione inglese è da mettere come suoneria sul telefono a ricordo di Marsilo!
Che bei ricordi! Correva l’ anno 1987 e mia madre mi mando’ a Cambridge 3 settimane a studiare l’ inglese. Ho provato le tue stesse emozioni nella metropolitana di Londra. Io anziché Marsili, non dimenticherò mai invece un ragazzino inglese che mi aveva dato un passaggio in bici perché non trovavo più la casa della mia famiglia ospitante a Cambridge. Che brava tua mamma , ti ha dato le ali per volare da sola ! E’ importante!
Ciao Raffaella, eh sì, mi ha davvero dato le ali! Riconosco di essere stata fortunata ad avere una mamma così.
Ognuno quindi alla fine ha il suo Marsilo! 😀
Ahahah!!! Che bello essere spronati cosí!!! Fa bene, anche se spaventa, viaggiare da soli la prima volta!!
…ed é anche bene imparare ad arrangiarsi da soli. Ti fa capire che puoi sempre trovare qualcuno disposto a darti una mano, se ne avessi bisogno!
Ciao Laura, è proprio vero: c’è sempre qualcuno disposto ad aiutarti in viaggio da sola, bisogna solo avere il coraggio di fare il passo iniziale.