Tutti veniamo al mondo con un dono: la possibilità di scegliere tra la libertà e la gioia e il dolore e la sofferenza. Tra i primi e i secondi c’è il nostro mondo di scuse.
Lo scrittore americano Steven Pressfield scrive nel suo The War of Art: “La maggior parte di noi ha due vite: la vita che vive, e la vita non vissuta che nasconde dentro di sé. Tra le due sta la Resistenza.” Alcuni riescono a superarla, e quando questo avviene è un piccolo miracolo perché è riuscito a scampare a una zona pericolosa: la zona di comfort.

Era il 2011 e mi trasportavo senza più entusiasmo tra casa, scuola e il supermercato. Non è che odiassi il mio lavoro, anzi, l’ho sempre amato. Ma c’era un sogno che era più grande della mia passione per l’insegnamento dell’inglese ai bambini, ed era scrivere.
Il problema era che, per me, non esisteva scrittura senza viaggio. Ma non una vacanza: per scrivere avevo bisogno dello stimolo del vivere fuori dalla mia zona di comfort. Questo coincideva con l’acquisto di un biglietto aereo per i luoghi più strani e meno battuti, e il vivere avventure che stimolassero la penna che dormiva in me. La scuola mi permetteva di farlo a tempo determinato, durante le vacanze di Natale e quelle estive. Pur vedendo i privilegi che tale lavoro mi regalava, a me non bastava. Non volevo una vita confortevole: volevo una vita vera.
Era una domenica pomeriggio d’inverno e io ero sola nel mio appartamento che sapeva di pulito e di non vissuto. Avevo comprato un arredamento spartano quando, tre anni prima, avevo deciso di andare a vivere da sola: chi sa di voler partire non si accasa. Avevo vissuto quei tre anni come in punta di piedi, senza quasi lasciare traccia di me in quelle stanze che non sentivo mie.
Il momento prima di una decisione cerchiamo sempre una prova di ciò in cui crediamo, e questa la andiamo a cercare nei posti più disparati: in un libro, un ritaglio di giornale o la bocca di un amico. Quel giorno ero sdraiata sul divano con tutte queste cose, meno la bocca: quando prendo una decisione non voglio parlare con nessuno. Il silenzio in questi casi è d’oro, perché nulla più del silenzio lascia affiorare la verità che ci piace tanto nascondere a noi stesse.
La prova di ciò in cui credevo stava in un ritaglio di giornale, in cui campeggiava l’intervista a una coppia di thailandesi un po’ strambi vestiti con giacche sgargianti e cappelli a larghe falde, che parlando al ragazzo italiano che ospitavano dissero:
“Quando vuoi fare qualcosa non aspettare e comincia a farla. Subito!”
Quel ritaglio era stato appeso per tre anni alla parete del mio studio, in modo che, casomai mi fossi persa per strada, ci sarebbe stato qualcosa a riportarmi con i piedi sulle nuvole.
Stavo per decidere, quando le paure mi assalirono:
– E poi papà cosa dice?
– E i miei alunni come faranno senza di me fino in quinta?
– E la gatta?
– E se poi va male e finisco tutti i soldi, dormirò sotto un ponte?
Avevo sempre fatto ciò che il mio cuore mi diceva di fare, senza alcuna paura, fin dai tempi dell’università. Dall’amore al volontariato al lavoro, non avevo mai guardato in faccia nessuno. Andai contro tutto e tutti per portare avanti una relazione con un ragazzo gambiano per quattro anni. Risparmiai per un anno per andare a fare volontariato in una missione in Kenya. Due anni dopo, senza soldi e senza lavoro, decisi testarda di andare in Madagascar ad aiutare una suora in difficoltà. E il destino mi ripagò offrendomi una supplenza il giorno dopo il mio ritorno. Per non parlare dell’anno di volontariato in Cambogia, che nessuno credeva avrei mai fatto.
Perché inseguire il sogno della scrittura doveva farmi paura?
Mi alzai da quel divano, andai nello studio e scrissi una lettera al dirigente della scuola, in cui chiedevo un anno di aspettativa per motivi personali. Sudando e col cuore che batteva come mille cuori che battono, qualche giorno dopo la consegnai.
Cosa successe alle mie paure?
– Mio papà si rifiutò di parlarmi da luglio – il mese in cui partii – fino a ottobre. Ma poi mi parlò di nuovo. E un anno dopo era fiero di me. Un anno dopo avermi detto: “Gli idealisti muoiono di fame!”. Non morii;
– I miei alunni arrivarono alla quinta elementare senza problemi;
– La gatta divenne un tutt’uno con mio papà, il quale mi disse di non osare sottrargliela per portarla a casa mia in caso di ritorno;
– Non finii sotto un ponte, bensì a fare la guida turistica in Oman.
E la scrittura?, direte voi. La scrittura arrivò. Un sogno si incastrò dentro un altro sogno, la vita fece il suo corso e sono arrivata fino a oggi.
Sono riuscita a coronare il mio sogno? Non del tutto: c’è ancora un po’ di strada da fare. Ma se non iniziamo da qualche parte, rimarremo sempre fermi nello stesso punto. Il punto in cui siamo sdraiati sul divano, con un ritaglio di giornale tra le mani a ricordarci chi vogliamo essere.
E’ cosa facciamo di quel ritaglio a mostrarci la forza del nostro carattere nel prendere in mano il nostro destino.
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