VARANASI, India – Era da un paio d’anni che Giada ed io seguivamo le reciproche avventure su Facebook. Complice la mamma di Giada che seguiva il mio blog, col tempo mi sono appassionata ai suoi racconti e alle immagini della sua vita a Calcutta. La scorsa settimana mi trovavo a Delhi dopo aver fatto un paio di ritiri di meditazione, e mi sono detta: “Sono a un’ora di aereo da Varanasi e non vado a conoscerla di persona?”. Pensavo di stare nella capitale spirituale dell’India un paio di giorni, è passata più di una settimana e sono ancora qui. Complici anche la simpatia di Giada e del suo compagno.
Questa è la loro storia.

GIADA
In Italia sono stata designer di borse. Ho studiato allo IED di Roma (Istituto Europeo di Design) e all’Accademia di Costume e Moda. Il primo lavoro che avevo trovato era presso Renato Balestra, come assistente per realizzare una collezione di borse con sua nipote Sofia. Poi sono stata contattata da una agenzia che si chiama La Compagnia delle Pelli come designer di borse. Grazie a questo lavoro ho iniziato a viaggiare, e dopo un anno e mezzo, nel 2015, sono stata per la prima volta in India, a Calcutta. Già la prima volta rimasi impressionata da questa città: io stavo in un albergo di lusso, avevo la macchina con l’autista, e fuori dal finestrino vedevo scorrere l’India vera: era lì che avrei voluto andare.

La terza volta in cui andai a Calcutta stavo parlando con il proprietario di una delle aziende con cui lavoravamo e gli dissi: “Sai che sto pensando di venire a vivere in India?” e lui mi rispose: “Neanche a farlo apposta hanno appena indetto il primo concorso per designer che vogliono spingere rapporti lavorativi con l’India.”
Ho mandato il mio curriculum e il mio portfolio e dopo qualche mese ero a un incontro di lavoro, ho incontrato un indiano e chiacchierando gli ho detto: “Sai che ho partecipato a un concorso per venire a lavorare a Calcutta?” e lui mi ha risposto: “Sì, lo so, tu sei Giada Baiocco, vero? Io sono la persona che ti ha selezionata”.
Temevo il giorno in cui avrei detto alla mia capa che mi sarei licenziata perché avevano bisogno di me, e invece lei mi abbracciò e mi disse: “E’ proprio quello che dovresti fare.”

A marzo del 2016 sono partita per Calcutta, dove lavoravo part-time tre volte alla settimana, e quattro giorni alla settimana facevo volontariato presso le Missionarie della Carità, che accettano volontari senza chiedere soldi in cambio o un tempo definito, puoi anche donare solo un’ora al giorno. Io lavoravo in un centro, Shanti Dan, che aiuta donne con disturbi mentali, ogni mattina ci incontravamo alle sette presso la Casa Madre, dove si trova la tomba di Madre Teresa e dove lei viveva, veniamo divise per gruppi e facevamo le prime ore il bucato con le pazienti più auto-sufficienti, poi c’era la pausa chai con le ragazze durante la quale ad esempio le pettinavamo o mettevano loro lo smalto, e poi aiutavamo a servire il pranzo e ad imboccare alcune di loro.

Com’è stato vivere da sola a Calcutta?
Subito non mi ero resa conto del cambiamento perché mi ero subito buttata nel volontariato. I primi sei mesi incontravo sempre altre persone, stranieri che facevano volontariato con me ed eravamo sempre in giro insieme. Ma quando tutti hanno iniziato a partire mi sono sentita molto sola. Infatti non vedevo l’ora di ritornare in Italia.
In totale sono stata a Calcutta un anno, in cui ho lavorato per due aziende diverse, poi sono tornata un paio di mesi in Italia, per poi tornare in India dove avevo ancora il mio appartamento in affitto – ma non più un lavoro. In quei giorni ho incontrato due signore italiane a Calcutta, grazie alle quali conobbi Stefano.

L’incontro con Stefano
Nonostante avessi vissuto per tanto tempo a Calcutta, non ero mai stata in uno slum.
Era l’estate del 2017 e un giorno mi dissero: “Noi facciamo volontariato con un ragazzo che va spesso nello slum, se vuoi ti diamo il suo contatto.”
Aggiungendolo su Facebook mi ero resa conto che eravamo già amici, ma non sapevo nemmeno chi fosse. Quando ci siamo incontrati per la prima volta io ero nel peggiore dei miei outfit, perché per andare nello slum mica mi dovevo mettere in ghingheri, no? Quindi ero senza trucco, con vestiti orrendi, bucati, e quando l’ho visto da lontano è stata come una visione, bello, come se avesse un’aura intorno, e io ovviamente vestita male. Perché quando si incontra l’amore non può mai essere quando siamo al meglio, no? L’amore arriva all’improvviso, non ci informa qualche giorno prima così ci mettiamo in tiro.

Dopo esserci raccontati un po’ abbiamo iniziato a camminare, e avevo notato che stare in sua compagnia era molto piacevole, perché non solo era molto simpatico, ma sapeva come comportarsi nel continente che amavo. Da allora ci siamo poi visti alle due o tre volte, durante le quali avevo ovviamente iniziato a curare di più il mio aspetto. Una volta ho pure cucinato una carbonara per lui e i suoi amici che manco Cracco. Tra noi però non successe nulla, nessuno dei due fece capire nulla all’altro e lui tornò in Italia.

Dichiarazione d’amore
Una volta tornata anch’io in Italia, a Pescara, dovevo andare a Milano, ed essendo lui di questa città, glielo dissi. Io ero ospite di una mia amica e le svuotai l’armadio perché volevo essere più bella di quando mi aveva vista la prima volta nello slum. Lui mi venne a prendere con la Royal Enfield, una moto indiana il cui motto è “Made like a gun, goes like a bullet”. Quando lo vidi arrivare mi tremarono le gambe, iniziai a pensare che forse non avrei dovuto indossare la minigonna, e lui quando mi vide mi disse: “Oh, sei diversa da quando eri in India!” e io subito a pensare che non gli piacevo. In realtà più avanti mi spiegò che non intendeva che non fossi bella, ma che ero più elegante.

Pranzammo in un ristorante indiano, facemmo un giro e poi mi riportò a casa, ci abbracciamo da amici e finita lì.
Lui da lì a un mese sarebbe partito per l’Africa per un anno col Servizio Civile, io tornai a Pescara e per una settimana scrissi e riscrissi un messaggio senza mai avere il coraggio di mandarglielo. Una sera glielo mandai dichiarando ciò che provavo per lui e Stefano le rispose che il sentimento era reciproco.
Così nell’ottobre del 2017 ci incontrammo a Roma e la nostra storia ebbe inizio. Un mese dopo Stefano partì per l’Africa, e dopo qualche mese, nel 2018, ci incontrammo a Istanbul. Nessuno dei due era felice di quello che stava facendo e a entrambi sarebbe piaciuto vivere in India, così ci venne l’idea di creare un tour operator per aiutare le persone a scoprire l’India insieme a noi che ci avevamo vissuto.

STEFANO
Io ho iniziato a viaggiare da solo quando ero molto giovane, con le classiche vacanze studio, a Dublino e New York. Fin da bambino sono sempre stato introverso e mi piaceva stare da solo. Ho imparato che se si sa stare bene da soli, poi si sta molto meglio anche con gli altri, perché non ti manca l’attaccarti alle persone per poter stare bene. Dopo alcuni viaggi in moto tra cui uno in Turchia e in Vietnam, nel 2013 sono arrivato per la prima volta in India, mentre studiavo legge all’università, facevo volontariato in ambulanza e kick-boxing. I miei viaggi sono sempre stati spartani e all’avventura, e anche quello in India fu in moto, con un mio amico d’infanzia. Comprammo una moto di terza o quarta mano a Delhi e vissi la mia prima vera avventura, il mio primo vero viaggio.

L’India seleziona i viaggiatori
Scoprii l’India ma anche l’esistenza di tanti viaggiatori affini a me: i paesi come l’India selezionano i viaggiatori. Un po’ come quando vai in montagna: se vai a mille metri trovi quelli che fanno le grigliate, se vai a tremila metri trovi i veri amanti della montagna e a settemila metri hai Messner e queste anime particolari.
In India incontrai persone con storie simili alla mia, studenti che cercavano l’avventura e la conoscenza di una cultura millenaria. C’erano ragazzi che avevano lasciato un lavoro sicuro ma che non li rendeva felici, ed erano venuti in India sperando di poter cambiare qualcosa del proprio stile di vita.

Sono poi stato nel Sud-Est Asiatico, però quando tornai a Milano iniziai a sentire forte la mancanza dell’India e di tutto ciò che rappresentava per me. Mi sentivo grigio e spento, circondato da persone che si lamentavano continuamente. Due anni dopo andai in Nepal e poi di nuovo in India, dove feci volontariato a Calcutta presso le Missionarie della Carità Nirmal Hriday, dove accoglievano persone in fin di vita e i più poveri tra i poveri.

La nostalgia dopo il rientro in Italia
Sono poi tornato in Italia, mi sono laureato il lunedì, ho discusso la tesi con un occhio nero perché avevo fatto il mio ultimo incontro di kick-boxing, e due giorni dopo sono partito per l’India per un anno. Non avevo un obiettivo preciso, ma stavo scrivendo un libro (che è ancora in fase di stesura) ambientato in India e volevo raccogliere informazioni e compiere qualche ricerca. Avrei voluto fare il giornalista, ma mi ero reso conto che io ero uno scrittore e la carriera giornalistica non avrebbe lasciato spazio alla mia creatività.
In India quasi nulla avviene dietro a uno schermo, la gente muore per strada, piscia per strada, si sposa per strada, viene cremata davanti a tutti; il senso dello spazio personale è molto diverso dal nostro, e questo mi ha permesso di comprendere meglio questo paese ma anche le sue contraddizioni. Ho fatto volontariato alla casa dei morenti, ho partecipato al Kumb Mela di Ujjain, un pellegrinaggio induista che si compie ogni dodici anni, sono stato a Mumbai a parlare con le schiave del sesso nel quartiere a luci rosse di cui ho poi scritto, e ho visitato un santuario sufi dove si compiono gli esorcismi.

Dopo essere tornato in Italia ho fatto un master per lavorare nella cooperazione internazionale, per pii partire per l’Africa con il Servizio Civile. Per una serie di circostanze particolari sono tornato in India prima di partire per l’Africa, anche se non sarei dovuto andarci, ed è stata la volta in cui ho conosciuto Giada.
Nulla avviene mai per caso, anche un viaggio in India che non avrei dovuto fare.
L’esperienza africana non fu entusiasmante, ma ebbi modo di conoscere ancora di più me stesso e cosa desiderassi veramente, oltre a scrivere.

La nascita di Samsara Roads
STEFANO – Lei in Africa e io in Italia, abbiamo iniziato a buttare giù programmi e itinerari e a studiare in nostri competitor. Decisi di lasciare anticipatamente il Servizio Civile perché l’esperienza non mi stava piacendo, e così partimmo insieme per l’India nel gennaio 2019. I primi mesi abbiamo deciso di vivere a Varanasi perché è una città molto viva, qui abbiamo il nostro maestro di hindi e di sitar (strumento musicale a corde dell’India settentrionale), ci sono templi e c’è il Gange.
Vivere a Varanasi non è affatto difficile e non è una città pericolosa. Posso dire che sia più sicura di tante città italiane o europee, e c’è pochissima micro-criminalità. La gente rispetto all’Europa è meno rissosa e non ha un ego così grande da doversi sempre proteggere dalle offese. Se qualcuno calpesta loro un piede, l’indiano solitamente non reagisce con un insulto o la faccia arrabbiata, ma continua per la sua strada con una scrollata di spalle.

GIADA – Da ragazza, Varanasi è la città più sicura in cui abbia vissuto o che abbia esplorata. Certo, può capitare l’inconveniente di incontrare una scimmia che ti morde o una mucca che ti tira una piccola testata, ma qui mi sento sicura e tranquilla.
Come vi ha cambiati l’India?
GIADA – Prima ero molto materialista e attaccata alle mie cose, la mia borsa, i miei vestiti. Ricordo che una volta, tornata dal Cammino di Santiago, mia mamma mi venne a prendere alla stazione e mi disse: “Che bello, sono contenta di rivederti!” e io le risposi arrabbiata: “Perché hai la mia borsa?”. A pensarci oggi me ne vergogno, ma questa è la realtà, prima ero così, ingabbiata in un sistema individualista e materialista. In India non sto più a vedere cos’è mio e cosa è tuo.
Inoltre, emotivamente sono sempre stata una persona impenetrabile, che non si apriva molto a livello affettivo. Grazie al volontariato ho invece imparato ad aprirmi emotivamente all’altro, anche alle persone che non conosco, a dare me stessa e farla entrare nel mio cuore. L’India mi ha aperta, e mi ha insegnato la pazienza: “Vengo tra quattro minuti!” e poi tu sei lì and aspettarlo per quattro ore mummificato.

STEFANO – L’India mi ha cambiato molto a livello caratteriale; sono arrivato qui per la prima volta a 18 anni, quando ero molto rispettoso, soprattutto delle diversità e delle culture diverse dalla mia. In India invece tendono a passarti sopra, se non ti fai rispettare non ti rispettano. All’inizio ho imparato a essere più assertivo, a farmi rispettare con i taxi driver o con i mercanti. A un certo punto ti accorgi che l’assertività diventa violenza, prevaricazione degli altri, diventa spiacevole e ti succhia un sacco di energie, e allora impari a riequilibrarti e rimanere assertivo ma in maniera più equilibrata.
Anch’io come Giada in India ho imparato la pazienza, soprattutto quella che nasce dal rispetto dei limiti degli altri, oppure la pazienza di dover tornare mille volte nello stesso negozio perché continuano a non farti il vestito come avevi chiesto tu.

Poi c’è il lato spirituale dell’India: io non sono mai stato interessato alla spiritualità e alla religione, ma qui ho iniziato ad approfondire, osservando e senza giudicare, gli induisti, i musulmani e i giainisti. In India, ovunque vai c’è qualcuno che sta compiendo un rituale o che sta recitando una preghiera o un mantra.Così ho iniziato ad approfondire la mia conoscenza delle diverse religioni, sia studiando sui libri che parlando con le persone che incontravo. Le religioni insegnano tutte ad accettare le debolezze degli altre e le proprie, e questo mi affascina molto. La spiritualità è anche uno dei motivi per cui ho deciso di vivere in India.
Qual è l’obiettivo dei viaggi di Samsara Roads?
Il nostro obiettivo è di regalare ai viaggiatori esperienze forti aiutandoli a immergersi nella cultura e nella vita indiana, visitando templi, moschee, slum e strade meno battute. Non è il classico viaggio in macchina in cui osservi l’India dal finestrino chiuso e l’aria condizionata, facendoti un’impressione vaga di ciò che accade fuori. Noi entriamo nelle case e nei templi, sempre dando spiegazioni approfondite per aiutare a comprendere la cultura indiana.

Come mezzi di trasporto utilizziamo treni, autobus e tutto ciò che è local. Proviamo il cibo locale e viaggiamo con lentezza, stando magari qualche giorno in più nella stessa città per capirla meglio. Vivendo in India possiamo condividere la nostra quotidianità e possiamo raccontare aneddoti di vita che magari la guida indiana non racconterebbe.

Le borse di Giada
Ho sempre desiderato creare una mia collezione di borse, ma lo volevo collegare al volontariato, per cercare di aiutare le famiglie bisognose. A Varanasi ho avuto la fortuna di conoscere una ragazza che lavorava per una ong locale, Learn for Life, che dà lavoro alle donne che hanno bisogno di emanciparsi e permette ai loro figli di frequentare gratuitamente la scuola. Ho iniziato a collaborare con loro nella creazione di borse con tessuti acquistati in Rajasthan da altre famiglie bisognose.

Cosa direste a chi vorrebbe inseguire un sogno ma è frenato dalla paura che possa andare male?
Possiamo solo portare il nostro esempio: noi non abbiamo esitato neanche un secondo, questo è quello che volevamo fare e non avevamo alcun dubbio a frenarci. Il nostro sogno ci calzava a pennello: quello che siamo è quello che facciamo.
Fare qualsiasi altra cosa sarebbe tradire la nostra natura e mettere la testa sotto la sabbia. Spesso non riusciamo a liberarci della cultura e della società che ci ha modellati in un certo modo, riempiendoci di paure per il futuro.
Inseguire un sogno, provarci, è liberatorio.

Ci vuole più coraggio a stare male in una situazione ma aver paura di schiodarsi per paura che si possa fallire, piuttosto che cambiare. Svegliarsi ogni mattina sapendo che si sta facendo una cosa che non ci arricchisce, non ci rende felici e non dà nulla alla comunità in cui si vive: ci vuole coraggio a decidere di continuare a vivere male.
Per chi vuole intraprendere un lungo viaggio o decide di venire a vivere in un paese come l’India, col tempo ci si accorge che si impara a semplificare la propria vita. Pian piano ci si libera degli orpelli inutili, la vita qui costa meno, noi paghiamo 80 euro al mese di affitto e non abbiamo più bisogno di tutto ciò che in Italia pensavamo fosse indispensabile. Nonostante questo, qui abbiamo una vita ricca di interessi, ognuno di noi ha i suoi e li coltiva ogni giorno.
Tutto il superfluo l’abbiamo lasciato in Italia.
Potete seguire le avventure di Giada e Stefano su Facebook; se volete fare un viaggio in India insieme a loro li potete contattare dal sito di Samsara Roads.

8 Comments
Ciao Giada, Ciao Stefano,
la vostra storia è bellissima! L’ho letta tutta d’un fiato e mi ha emozionata e fatto sognare.
é così bello vedere in voi l’Amore, quello Vero, quel sentimento così raro e prezioso. Ed è ancora più bello sapere che vi siete conosciuti tramite un’esperienza dura, profonda e intensa a contatto con una realtà complessa, quale l’India. La condivisione di una tale esperienza, a mio avviso, lega per sempre le persone più di qualsiasi altra situazione.
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Vi auguro tutto il meglio!
Un abbraccio,
Silvia
Ciao Silvia!!
Grazie mille per il tuo bellissimo commento, ci fa molto piacere sapere che la nostra storia ti abbia fatta emozionare!
Hai perfettamente ragione, questa esperienza e questa nostra passione per l’India crea fra di noi un legame forte e solido; è stato il primissimo motivo a far schioccare la scintilla!!
Un abbraccio:)
Giada
Certo che l’Amore con la A maiuscola a volte fa dei giri assurdi, e la storia di Giada e Stefano è davvero incredibile!
Ciao Paola, sì, l’amore è davvero un sentimento incredibile, e si incontra quando meno ce lo aspettiamo, e spesso in situazioni particolari, come la loro a Calcutta.
Eh si, chi l’avrebbe mai detto di trovare l’Amore (anzi, l’Ammmmmmooore, come lo chiamo io!!!!!) proprio lì!
Quando si dice essere nel posto giusto al momento giusto;)
Davvero interessante 🙂 Grazie
Ciao Lorenza, sono felice che la loro storia ti sia piaciuta
Grazie a te Lorenza!!:)