Ero tranquilla a Torino, quando il padrone del tour operator di Salalah per cui lavoro mi ha chiamata: “Se non rientri in Oman entro due settimane ti scade il visto di lavoro”. Vivo notoriamente tra le nuvole, ma ho un capo – ma prima ancora un amico – che mi capisce e mi sostiene. Ha studiato la lingua italiana qualche anno fa durate un viaggio-studio nel Belpaese, per cui tra un salam aleikum e un inshallah infila sempre un “Buongiorno!” oppure “Perfetto!”, o ancora “Andrà tutto bene”. Questa volta, al mio stupore nel dover rientrare velocemente in Oman, mi ha risposto con un: “Boh?”.
Dopo un rapido consulto con mia sorella su come organizzarci per aiutare mia mamma per una settimana in mia assenza (ha subito da poco un’operazione complessa al piede sinistro), ho acquistato il biglietto aereo per l’Oman.

Dopo una breve sosta a Muscat ho preso il volo per Salalah, dove sarei stata subito catapultata in ospedale per la prima visita medica, per non perdere tempo. Amo la rotta Muscat-Salalah: quando l’aereo sorvola la regione più meridionale dell’Oman, il Dhofar, il paesaggio diventa suggestivo; montagne, sabbia e wadi, termine arabo che indica la valle, si uniscono in un gioco di forme affascinante: visto dall’alto sembrano rami e radici di alberi che penetrano nelle montagne e finiscono nel mare.

Della mia prima allegra visita medica per ottenere un visto di lavoro per l’Oman, fatta nella capitale Muscat, avevo già raccontato in passato; ora ero pronta per vedere come si sarebbe svolta quella a Salalah. L’unica cosa che sapevo era ciò che Bakhit (il padrone di Arabian Step Oman) mi aveva detto prima di partire: “Tu compra solo il biglietto aereo, al resto ci penso io, tu non ti devi preoccupare di niente, fai come se fossi in vacanza.”
Vi avevo già detto che è una delle persone più belle dentro che abbia mai conosciuto?

Il ragazzo bengalese che ci aiuta, Assad, mi è venuto a prendere in aeroporto, e durante il tragitto fino al mio hotel apartment abbiamo intessuto un’interessante conversazione in un misto di inglese-bengalese-arabo-gesti. L’unica cosa che ricordo di quella conversazione, nello stordimento di un volo notturno in cui non ho chiuso occhio, è che quest’anno andrà in Bangladesh a sposarsi. Bene! Congratulazioni!
– Quant anni hai?
– Venticinque
– E la tua futura sposa?
– Sedici
– Ah
– Ma non faremo figli subito, eh? Aspetteremo che lei ne compia diciotto
– Ah beh, almeno quello. Vi siete visti in foto?
– Sì. E’ molto bella.
Non potendo continuare la conversazione per le evidenti difficoltà a intenderci, ci siamo messi d’accordo per andare alla clinica a fare la radiografia del torace dopo le 5 del pomeriggio (inshallah – se Dio vuole): Bakhit aveva disposto che mi lasciasse riposare tutto il giorno. Arrivata in hotel mi sono infatti buttata sul letto sfinita e ho cercato di chiudere occhio, ma non ci sono riuscita: tra i richiami alla preghiera della vicinissima moschea e il vociare dei bambini e delle famiglie dirimpettaie, complici anche i tre tè bevuti in volo, mi sono svegliata ogni venti minuti. L’hotel apartment era lo stesso in cui avevo vissuto la scorsa stagione a Salalah, ed è frequentato, tra gli altri, da famiglie provenienti dal confinante Yemen in guerra, che grazie al governo omanita vengono a curarsi nell’ospedale di Salalah, non lontano dall’hotel.

La moschea vicino al mio hotel
Assad si è presentato alle 20.15, ma io ero troppo addormentata per cambiarmi e uscire e abbiamo rimandato la radiografia alla mattina seguente, quando ci siamo presentati alle 9.30 in clinica per i raggi X al torace.
Il ragazzo indiano alla reception mi ha preso l’impronta digitale del pollice sinistro, poi mi ha chiamata per farmi una foto da una reflex posizionata accanto a lui, poi mi ha fatta accomodare su una sedia in attesa del mio turno. Nel mentre io mi sono pian piano trasformata in una donna araba con tanto di hijab e maglia a maniche lunghe per ripararmi dall’aria condizionata gelida che regnava nella sala d’aspetto – sala in cui c’erano tre lavoratori bengalesi in tuta da lavoro e un asiatico accompagnato da un omanita (probabilmente il suo sponsor), in attesa di fare anch’essi la radiografia.

Quando è giunto il mio turno sono stata invitata a entrare nella stanza delle radiografie, e sono stata subito accolta da una ragazza indiana che mi ha preso nuovamente l’impronta digitale del pollice sinistro (casomai avessi deciso all’ultimo momento di farmi sostituire da qualcun’altra). La giovane dottoressa, anch’ella indiana, mi ha accompagnata in uno sgabuzzino e invitata a togliermi tutto e indossare una specie di kimono verde ospedale (ovviamente) di un cotone spesso che per fortuna mi avrebbe protetta dall’aria condizionata anch’essa gelida della camera. Dubito di essere stata molto sensuale con quel kimono addosso.

Nello sgabuzzino ho notato la presenza di un lavandino con l’interessante scritta: “Lavarsi solo le mani. Non sputare”:

Dopo aver fatto la radiografia del torace, la dottoressa e la sua aiutante mi hanno fatto i complimenti per i capelli: “Beautiful pink hair! Beautiful face also!”. Io, che avevo ancora le occhiaie e la faccia gonfia per il volo aereo, e i capelli – con una striscia rosa per lato – secchi e stopposi per l’acqua e il clima di Salalah, ho ringraziato, e ho chiesto loro da quale parte dell’India provenissero.
– Kerala!
– Non ci sono mai stata, ma vado in India almeno una volta all’anno
– Vieni in India per fare yoga? Per ché il tuo viso risplende, si vede che fai yoga!
Solo allora sono stata assalita da un dubbio: non è che non appena evado dal grigio di Torino e mi metto su un aereo qualunque, il mio viso inizia a splendere e cambio aspetto?
Dieci minuti dopo siamo usciti dalla clinica con il referto in mano (tutto a posto) e ci siamo avviati verso il Sultan Qaboos Hospital per l’esame del sangue. Ogni volta che si entra in un ospedale, in una banca o in un ufficio, l’accompagnatore di turno ti fa sempre cenno di sederti e aspettare: questo gesto gentile nei confronti delle donne fa parte della cultura omanita e all’inizio mi aveva stupita: in Italia non siamo più abituate a queste maniere gentili.

L’area dell’ospedale in cui mi hanno prelevato il sangue
Assad mi ha invitata a sedermi mentre avrebbe atteso in coda allo sportello, poi abbiamo attraversato corridoi colmi di lavoratori in tuta da lavoro, per giungere in un ufficio dove mi avrebbero prelevato una provetta di sangue. In un normalissimo ufficio con due donne omanite in abaya e hijab neri e senza camice, due scrivanie, le sedie con le rotelle, il computer e il telefonino sempre a portata di mano per una veloce controllata a Facebook. Un indiano seduto in sala d’aspetto, con un bel sorriso mi fa cenno di passare prima di lui: in India mi sarebbe passato sopra.
Un indiano con una tuta da lavoro marrone chiaro e sandali, posizionato tra le due scrivanie, coordinava con gesti lesti e portuali il turno di noi lavoratori in attesa; a tratti sembrava un addetto al decollo degli aerei, di quelli che stanno in pista e si muovono freneticamente, e ad ogni cambio di lavoratore lo chiamava con un leggero fischio. A giudicare dall’aria giuliva si doveva divertire molto, e così anch’io, infatti quando mi ha chiamata con un fischio gli sono scoppiata a ridere in faccia.

A sinistra l’allegro indiano in tuta da lavoro marrone
Mi hanno fatta accomodare su una sedia accanto alla scrivania e la ragazza omanita, truccatissima, profumatissima, molto in carne e senza camice, mi ha stretto il braccio con il laccio e mi ha infilato l’ago nella vena. Mentre sbiancavo mi ha detto sorridente: “Beautiful pink hair!”. In un attimo ero fuori da lì, accompagnata dal sorriso ironico dall’uomo in uniforme marrone chiaro che mi invitava ad entrare in un ufficio poco più in là. Qui un’altra ragazza omanita truccatissima, profumatissima e molto in carne ha smesso per un attimo di controllare il telefonino e di prepararsi il tè da un bollitore sula scrivania, ha apposto un timbro sul modulo che avevo in mano e mi ha congedata dicendo: “Ci vediamo tra due anni!”.
La mattina seguente il risultato dell’esame del sangue è giunto per via telematica al Dipartimento dell’Immigrazione del Royal Oman Police, attestando la mia idoneità a vedermi rinnovato il visto di lavoro per l’Oman per altri due anni: non sono incinta, e non ho malattie infettive.
Welcome to Oman.

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