Non ho mai avuto paura di inseguire i miei sogni. Ho sempre avuto le idee abbastanza chiare su ciò che volevo, nonostante avessi sempre avuto tanti interessi. Mia mamma mi dice sempre: “Durante l’università hai perso tanto di quel tempo facendo corsi e stupidaggini che avresti potuto finire nella metà del tempo.” Come darle torto? I miei molteplici interessi e le molte curiosità mi portarono a tentare tante strade: quella dell’insegnante, della modella, dell’attrice di teatro, della grafica pubblicitaria, della volontaria in Africa. Alla fine, però, anche le stupidaggini mi portarono dove il destino avrebbe voluto. Il destino, si sa, va aiutato a trovare la sua strada, e solo un atto di coraggio può portare a ciò che siamo destinati. Un atto di coraggio nel troncare una relazione che ci peggiora la vita anziché arricchircela; nel fare quel viaggio da soli che abbiamo sempre sognato; o nel liberarci di un lavoro che non amiamo più e ci tarpa le ali.
Bisogna essere liberi di sperimentare e di tentare, liberi di sbagliare. A volte, lasciare un lavoro a tempo indeterminato può essere la via per diventare se stessi e ritrovare la gioia.

Era il 20 gennaio 2017 e mi svegliai alle sei e mezza. Alle sette ero già lavata, vestita e nutrita, pronta per prendere quella decisione che pesava da anni come un macigno. Il giorno era arrivato: il termine ultimo per dare le dimissioni con eleganza, oppure tornare a insegnare inglese nella scuola primaria e addio sogni di libertà.
Se pensate che decidere di inseguire i propri sogni sia facile, vi invito a immaginarmi quel giorno: seduta sul letto in una stanza in affitto all’interno di una villa in Oman, i capelli ritti, una mantella sulla schiena tipo poncho messicano con frange, nella posizione del loto tipo Buddha in meditazione, con la differenza che io dentro ero un mare in tempesta. Se il mio compagno osava entrare, veniva apostrofato come mille ansiosi che apostrofano, e venivo prontamente lasciata in pace. Poi mi alzavo, andavo in cucina con aria innocente e gli ululavo: “Non so cosa fare!”.
Certo che lo sapevo: altrimenti non sarei stata così combattuta e avrei già scelto. Ma le strade in salita, si sa, sono le più difficili da percorrere, anche se sono le uniche a portare alla piena realizzazione di sé.
E così, tra impubblicabili esclamazioni (mie) e una pazienza di Giobbe (sua), venne a sedersi sul letto e prese un foglio, su cui tracciò due liste, “Darle” e “Non Darle”, Pro e Contro. Fu curioso che da una parte scrisse DREAM, dall’altra JOB.
Ne venne fuori una discussione interessante, che passava da “stipendio fisso ogni mese” a “tranquillità” a “wi-fi perfetto per business online”, da “viaggiare solo a Natale e d’estate” a “libertà di movimento” a “insegnare in barca”, fino al temuto “trovare soldi per la pensione“.
Sull’idea dell’età pensionabile 67 anni mi immaginai dopo tanti anni di insegnamento, canuta e senza voce, e al termine di una vita tutta uguale: era questo che sognavo?
Mi ricordai del libro “Vivere, amare, capirsi” di Leo Buscaglia, che nell’agosto di vent’anni fa scelsi come bibbia, in quanto l’autore era (ed è tuttora) per me uno dei massimi esperti sulla vita e sull’amore. “Devo disimparare tutte le sciocchezze che gli altri mi hanno accumulato addosso. A ogni stupidaggine di cui mi disfo, divento più libero”, scriveva. In un altro suo libro avevo letto un passo illuminante:
“Mi avevano detto che, se avessi mollato un buon lavoro per fare il giro del mondo, me ne sarei pentito e sicuramente non sarei mai stato abilitato all’insegnamento. Io però me ne sono andato ugualmente.
E quando sono tornato ho trovato un lavoro anche migliore del primo. E ho ottenuto l’abilitazione, nonostante il mio colpo di testa”.
Benché allora non fossi nemmeno ancora entrata di ruolo, già mi rimase impresso, a riprova del fatto che il nostro cuore sa – anche con anni di anticipo – ciò che è meglio per noi.
Ciò che mi aveva portata a quel fatidico giorno era stato costruito seguendo unicamente l’istinto, fin dal giorno della mia laurea in lettere a indirizzo artistico. Anni di viaggi in aereo e di scelte non convenzionali avevano fatto di me una ragazza prima, e poi una donna che seguiva il cuore per poter morire, un giorno, senza alcun rimpianto. I primi otto mesi di aspettativa li presi a tre anni dall’entrata in ruolo, per coronare il mio sogno di fare un’esperienza di volontariato in Cambogia. Ero consapevole del fatto che alcuni ex colleghi di mia mamma avevano espresso il desiderio di fare volontariato una volta andati in pensione, ma poi per qualche motivo (nascita improvvisa di nipoti, malattia o decesso) non erano riusciti a coronare questo sogno. Perché aspettare?

A quell’esperienza seguì un anno di aspettativa per girare l’Asia in cerca del mio posto nel mondo, assecondando le mie più grandi passioni: il viaggio e la scrittura. Era il 2012 e in Thailandia aprii questo blog, dopo aver insegnato in una scuola di lingue in Cina e fatto meditazione in Myanmar. Viaggiai da sola in Iran e, del tutto casualmente e su invito di una amica che faceva la guida turistica, mi ritrovai a lavorare in un paese della Penisola Arabica di cui ignoravo l’esistenza, il Sultanato dell’Oman. L’anno successivo lo presi come sabbatico per continuare a lavorare come guida in Oman, seguendo anche un amore che, tra patemi, dilemmi, gioia e pianti, finì l’anno successivo, quando mi lasciai andare a ciò che un’esperienza eccezionale che l’India aveva riservato per me. Capii che rovinarsi la vita per un uomo non è ciò per cui veniamo al mondo, che si può sempre trovare un compagno di vita a posto con se stesso che non ha paura di amare e in primis ama se stesso, o che si può sempre restare da sole e non è una tragedia.

Tentai la strada dell’insegnamento dello yoga, questo mi portò ad approfondire la pratica delle meditazioni Vipassana e tibetana Mahayana, e 43 anni mi ritrovai a insegnare in uno studio di yoga in Nepal: non è mai troppo tardi per capire ciò che non si vuole fare, e per tentare nuove strade.
La strada verso la libertà può essere percorsa anche a senso inverso, come ha commentato l’amica Alessandra sulla mia pagina Facebook:
“Un lavoro sicuro non sempre è il contrario di libertà e felicità. Io dopo 10 anni sto per chiudere la partita iva e accettare un posto fisso per un lavoro che amo con persone che stimo. Certo viaggerò meno, forse, e forse avrò orari più “fissi”, ma da freelance mi pare tutto fuorché libertà, almeno per la mia professione. E non avevo orari fissi, ma lavoravo sempre, accettando anche cose che non mi entusiasmavano per far cassa. Francamente non vedo l’ora di potermi dedicare a fare del bene. Se poi è la tua passione… Non è giusto contrapporre lavoro fisso a libertà. Piuttosto, libertà di seguire una passione oppure no.”
Citando Serena di Faccio Come Mi Pare,

Il dirigente della scuola in cui insegnavo, un sant’uomo che cominciava a perdere la pazienza di fronte alle mie ormai annuali defezioni, sperava che prendessi questa benedetta decisione, per non vedermi più comparire ogni primavera alla sua porta con la faccia da cadavere e una domanda di aspettativa sporta con mano tremante, perché consapevole di dovergli di nuovo regalare l’incombenza di trovare una sostituta per quella cattedra di inglese.
Amavo insegnare l’inglese ai bambini, e con il mio metodo ludico fatto di canzoni e giochi di ruolo credo di aver trasmesso loro un po’ della mia passione per la lingua e la cultura anglosassone, con gioia e allegria. La mia passione per le culture altre, per l’incontro con altri popoli e per la scrittura di viaggio mi portava però a sentire una insoddisfazione di fondo che non mi lasciava vivere e dormire serena.
E così il momento era arrivato, e io non avevo mai avuto così paura di seguire il cuore prima di allora.
Nera d’umore e cadaverica in viso, quella sera cenai di malavoglia, e il mio ragazzo, che faceva orari impossibili sul lavoro, mi disse:
“Ciao, io mi metto a dormire”.
E si addormentò lì, in due minuti, lasciandomi sola con le mie incertezze, le mani sudate e la testa che scoppiava. Lui lo sapeva: dopo aver ascoltato i consigli di mezzo mondo, l’unica che poteva prendere la decisione ero io. E lo potevo fare solo nel più rigoroso silenzio.

La stanza in Oman dove presi la decisione di lasciare il posto fisso
Mi rimisi così davanti al computer, con lui che russava beato e io con un fumetto sopra la testa con nuove, impubblicabili imprecazioni, in attesa di uno sprazzo di ispirazione. Il quale sprazzo arrivò sotto inaspettate sembianze. Avevo solo più due ore di tempo per inoltrare questa benedetta domanda di dimissioni online, e decisi di iniziare a entrare nel portale. Qualcosa, però, si inceppò: mi chiedevano una password che non conoscevo, senza la quale non saprei potuta accedere alla pagina dei pensionamenti e delle dimissioni, e addio sogni.
Iniziai a sudare, mi levai la maglietta, restai in reggiseno, il viso divenne paonazzo mentre iniziavo a sfogliare la rubrica della mia agenda, in cerca di quella maledetta password che mi avrebbe aperto la porta per la libertà.
La porta per la libertà. Allora era questo che volevo.

Sudavo e imprecavo perché mi stava salendo la disperazione immaginandomi a settembre chiusa di nuovo in quelle aule, e in una vita che non sentivo più mia. Quel momento di angoscia immaginando il mio futuro mi fece scegliere.
Mi voltai verso di lui. Respirava a bocca aperta. “Mannaggia anche a te! Possibile che gli uomini dormano sempre quando è ora di servire a qualcosa?”
Trovai una password creata per un portale generico della scuola, qualche anno prima. Provai a immetterla.
Era quella giusta.
Qualche minuto dopo, con il cuore che batteva come mille cuori che battono, la mia richiesta di dimissioni era stata inoltrata.
Il giorno dopo, una telefonata dall’Italia mi avvertiva che mio papà aveva un male incurabile con una aspettativa di vita di pochi mesi.
Avrei dato le dimissioni sapendo che magari mio papà avrebbe potuto vivere più a lungo, e io sarei potuta stargli accanto continuando il mio lavoro di maestra a due passi da casa?
Forse no.
Ma il destino aveva fatto in modo che io facessi la scelta giusta, quella compiuta libera da ogni condizionamento.
La porta per la mia libertà era lasciare il posto fisso.
Continuiamo a girare finché non arriviamo dove tutto era iniziato, a quella passione che è anche il motivo per cui siamo venuti al mondo, che è diverso per ciascuno di noi. Quella strada, quel dono ci ha sempre chiamati, ma per qualche motivo non l’abbiamo mai ascoltata con attenzione.
A un certo punto dobbiamo fare ciò che abbiamo aspettato di fare fino adesso.
La vita è un dono, non bisogna aver paura dell’ignoto, bisogna osare e rischiare se stessi: solo così potremo stupirci di quante opportunità si apriranno una volta varcata la porta che dà sulla vita che vogliamo.

9 Comments
La cosa incredibile è che nel nostro cuore sappiamo già cosa vogliamo, ma ci facciamo condizionare tantissimo dalla paura dell’ignoto!
Ciao Paola! Sì, il nostro istinto sa darci la direzione giusta, ma il timore di ciò che potremmo affrontare spesso ci frena. Dovremmo fidarci di noi stesse.
Ottimo. La stessa identica “ispirazione” e quindi decisione mi è venuta a me, in questo periodo di “malattia” in attesa di intervento di ernia al disco. Dopo 20 anni non posso più stare in un ufficio scolastico, squallido, triste, buio, grigio, desolante, e dal primo settembre 1 anno di aspettativa, propedeutico alle dimissioni. Non è mai stato il mio posto ed io non sono mai stato presente davvero, per 20 anni, in quegli uffici. Nessun rimpianto reciproco 😀😀
Mi inventerò qualcosa pure io, partendo da zero, a 47 anni. Chi non rischia l’avventura, chi non affronta il salto, resterà sempre nella comfort zone, ma triste a vita.
Torno nel mio vecchio settore, quello turistico, dove senza dubbio ho ottime competenze, altro che la monotonia dell’impiegato.
Ti apprezzo molto e ti stimo.
Ciao Michele, sono contenta che tu abbia deciso di dare un taglio a ciò che non ti sta più bene: l’aspettativa è perfetta per testare nuove strade e lasciare con gradualità un posto di lavoro che non è più nelle nostre corde. Tra l’altro le problematiche legate alla schiena e l’ernia del disco hanno un significato psicosomatico ben preciso, che ti riporto:
“Quando lo stress diviene costante, a causa delle circostanze di vita o di tratti temperamentali, i muscoli della schiena si possono contrarre in maniera eccessiva fino a divenire dolenti.
Da un punto di vista psicosomatico, a seconda dell’intensità e dei gradienti, il dolore lombare potrebbe essere un modo attraverso il quale il corpo esprime il disagio di dover sopportare alcune situazioni della vita, divenute intollerabili per la persona. Un atteggiamento orientato al sacrificio, basato su un senso del dovere eccessivo associato ad una scarsa conoscenza dei propri limiti, sembrano essere, secondo alcuni autori (es. Alexander, Lowen) caratteristiche correlate a problematiche di dolore alla schiena.”
Se l’inconscio ti ha parlato attraverso il corpo, hai fatto bene ad ascoltarlo. Sono sicura che troverai una alternativa valida all’ufficio grigio in cui hai lavorato finora, per tornare a respirare. In bocca al lupo!
Bellissimo articolo! il problema nasce quando nel luogo di lavoro non possono dare l’aspettativa così facilmente….
A proposito di Leo Buscaglia, qual è il libro da cui hai tratto la frase “Mi avevano detto che, se avessi mollato un buon lavoro per fare il giro del mondo, me ne sarei pentito e sicuramente non sarei mai stato abilitato all’insegnamento. Io però me ne sono andato ugualmente.
E quando sono tornato ho trovato un lavoro anche migliore del primo. E ho ottenuto l’abilitazione, nonostante il mio colpo di testa”.
Grazie, sempre bello leggerti!
Ciao Denise, sono contenta che l’articolo ti sia piaciuto!
“Nati per amare” è il libro di Leo Buscaglia da cui ho tratto la citazione nell’articolo. I suoi libri sono sempre illuminanti e danno la giusta dose di coraggio per inseguire i propri sogni.
Un abbraccio!
Ciao! ci credi che ce l’ho quel libro da 1000 anni…sicuramente l’ho letto, a pezzi….ho tantissimi libri che compro che poi non leggo ma prima o poi….
grazie Un abbraccio!
Denise
Anch’io ho tanti libri che non ho ancora letto, per non parlare degli ebook sul Kindle. Sarà che non amo leggere sul kindle, ma in viaggio è comodo e non devo trasportarmi dietro una valigia di libri come facevo in passato 😀
Buona giornata!
Esatto anche io amo la carta ma in viaggio è troppo comodo il Kindle…ho speso talmente tanti soldi in libri ma penso che siano soldi ben spesi assieme ai viaggi … buona giornata cara