In amore ne ho combinate più io di Bertoldo, benché non sia sicura che Bertoldo abbia fatto pazzie in amore. Su di me, invece, sono sicurissima: dai ventidue anni in poi mi sono sempre buttata a capofitto in storie più o meno raccomandabili, nelle quali ho vissuto avventure picaresche dai risvolti ridicoli, tragici, ma per lo più divertenti. Avendo cominciato a viaggiare per studio, d’estate, dai tempi dell’università – e avendo sempre avuto l’innamoramento facile – ne sono uscite relazioni piuttosto travagliate con ragazzi distanti migliaia di chilometri. Quella volta, però, il lui in questione non lo conobbi in giro per il mondo ma a Torino. E poi lo andai a trovare in Gambia.
Come non notare Papì? Un Michael Jordan senegalese alto un metro e novanta e grosso quanto un armadio (un armadio di muscoli), ci fu innamoramento reciproco a primissima vista. Ai tempi vivevo con la testa piuttosto nelle nuvole, credevo a tutto e soprattutto all’amore.
L’amore con un ragazzo africano ai tempi del razzismo non fu affatto facile: la nostra relazione era osteggiata apertamente da mia madre (che non ne voleva sapere), da mio padre (che non sapeva) e da buona parte dei torinesi anziani che, incontrandoci abbracciati per strada, spesso ci apostrofavano con parole di fuoco. Poichè noi il fuoco ce l’avevamo dentro, andavamo avanti per la nostra strada tranquilli:
La relazione durò qualche anno, e comprese anche un bellissimo viaggio nel Gambia, dove Papì era cresciuto, e dov’era andato a trascorrere l’estate. Lo raggiunsi nella capitale Banjul per dieci giorni nel mese di luglio, piovoso e a rischio malaria: quando mai facevo attenzione ai dettagli?
Mia madre era leggermente disperata perchè non aveva idea nè chi andassi a trovare, nè dove: chi aveva mai sentito parlare di questo piccolo stato dell’Africa occidentale completamente circondato dal Senegal? Le dissi di non preoccuparsi (si preoccupò), le lasciai il numero di telefono dello zio di Papì scritto su un foglietto di carta, il nome della città in cui avrei soggiornato, mentii a mio padre dicendogli che sarei partita per l’Africa con uno scambio universitario (fece finta di credermi), e mi imbarcai.
Io, la mia valigia e l’amore.
Mi accolse all’aeroporto con una rosa rossa di plastica, ci infilammo su un taxi scassato e tirai giù il finestrino: l’odore del Gambia mi impregnò le narici: ero di nuovo nell’unico continente in cui avrei mai voluto vivere.
Che all’epoca vivessi solo d’aria e d’amore, ve l’ho già detto. Papì aveva affittato una casa per noi due in un compound per turisti, da cui si sentiva un vicino gambiano che vomitava di continuo perché aveva preso la malaria (la cosa non mi toccava minimamente, sono sempre stata fatalista) e da cui sentivamo cantare una ragazza inglese decisamente in carne che aveva appena sposato un ragazzo del posto con i dread lock alla Bob Marley, il quale faceva rutti sonori la sera in giardino fumando canne a go-go.
Papì mi portò a vedere il meglio e il peggio del suo paese: coccodrilli, giungla, oceano e spiagge popolate da uno spiccato turismo sessuale femminile, la mamma, sorella e figlia di un amico gambiano che voleva che andassi a scattare la foto della sua famiglia, e amici che vivevano in baracche di lamiera.
Se di giorno mangiavamo in camera piatti succulenti di riso, verdure, pollo o pesce preparati da una donna del posto, la sera cenavamo al ristorante in un villaggio con le strade di terra rossa e la luce fioca: quando entravo non vedevo un accidente, mangiavo con le mani il pollo più buono del mondo seduta su sedie di plastica e mi lavavo le mani in una bacinella di acqua unta in cui se l’erano lavate tutti prima di me.
Ero felice.
Non dimenticherò mai le lacrime di Papì quando mi portò a visitare il luogo da cui partirono centinaia di migliaia di schiavi diretti in America: non c’era da stupirsi che avessero scelto proprio quegli uomini di etnia mandingo, alti e forti, da vendere oltreoceano.
Il ricordo più bello del Gambia è legato al villaggio di Juffureh, in cui Papì mi fece incontrare un’anziana donna africana vestita di tessuti dai colori sgargianti: apparteneva alla dinastia di Kunta Kinte, il protagonista del libro di Alex Haley da cui fu tratto il famoso film Radici.
Papì ed io ci congedammo con un abbraccio stretto e un bacio appassionato, tornai in Italia e di lì a poco andai a lavorare all’estero nella cooperazione internazionale. Ci incontrammo di nuovo a Torino, e la nostra relazione terminò poco dopo, quando ormai non funzionava più.
Il ragazzo mi mandò gli auguri di compleanno, ogni 29 agosto e per tanti anni a venire, finchè mi chiamò e io gli dissi (poco) gentilmente di non farsi mai più sentire perché ormai avevo la mia vita. Il motivo per cui lo allontanai dalla mia vita non lo posso rivelare, ma posso rivelare che per un anno, nella mia casa all’estero, sul caminetto c’è stata la fotografia di me e Papì, a ricordarmi un amore intenso che era finito con uno strappo.
Tutto questo fino alla scorsa settimana, quando ricevetti una telefonata: era Papì.
Ed era cambiato.
Ora parla benissimo italiano. Ha un bel lavoro. Pensa di tornare in Gambia. E mi ha detto che aveva bisogno di dirmi una cosa. Una cosa sola.
Così ieri sono partita, l’appuntamento era alle cinque “nel solito posto dove ci incontravamo quindici anni fa, vicino a Porta Nuova”. Peccato che ieri ci fosse una manifestazione, e così io, che arrivavo da zona Fiat con il tram n.4, non riuscissi a beccarlo: “Scendo in quella via! No, in quell’altra! Vienimi incontro! Aspettami lì che vengo io! No, vieni tu! Ma dove cavolo sei?”.
Era lì, lui. Il mio armadio altro un metro e novanta, un po’ più magro, ma sempre lui.
Lui non osava guardarmi, io neanche. Abbiamo cominciato a incamminarci verso via Roma e a scherzare, “Sei sempre uguale! Sei sempre grosso! Sei sempre acida!”. Poi un braccio attorno alla vita, che scivolava subito via. Poi gli ho buttato le braccia al collo in mezzo alla strada, e sono scivolata subito via.
Ci siamo seduti nel dehor di un bar e abbiamo cominciato a parlare, uno di fianco all’altro. Le sedie sempre più vicine. Finchè mi ha preso le mani nelle sue, grandi e scure del colore dell’ebano, e me le ha baciate. Finchè mi ha preso la testa e me l’ha avvicinata alla sua, la bocca vicina al mio orecchio e mi ha chiesto scusa. Mille volte scusa per avermi fatta soffrire quando era giovane e immaturo. Insicuro. Inconsapevole di ciò che stava facendo e di mettersi nei guai. “Non sono più quello di allora. Le persone possono cambiare, migliorarsi. Avevo bisogno di spiegarti cos’era successo. E chiederti scusa”.
Dopo un paio d’ore ci siamo alzati, chi era di fianco a noi era già andato via e non ce n’eravamo neanche accorti. Mi ha accompagnata alla fermata del tram e abbiamo continuato a ridere e scherzare come un tempo, come quindici anni prima, come se il tempo non fosse mai passato.
Poi è comparso il tram all’orizzonte, fermo al semaforo rosso.
Ci siamo guardati.
Mi ha presa e mi ha tirata verso di sè con tutta la dolcezza che aveva.
Mi ha stretta a sè e per un minuto, un minuto che è sembrato un’eternità, sono scomparsa nei muscoli del suo petto. Il profumo dell’Africa. L’università. L’oceano. Juffureh. Kunta Kinte. La rabbia. L’amore.
Il tram stava svoltando in Via Sacchi. Ho alzato lo sguardo, ho incrociato i suoi occhi neri come la notte e sono andata via. Piano. Sempre più piano.
“Vai in India poi torna!”
“Non posso!”
“Vediamoci in Africa!”
“Quando?”
“A dicembre!”
“Va bene, a Banjul, il primo di dicembre!”
“Je t’adore! Je t’…”.
Sono corsa sul tram, il cuore in tumulto senza capire il perché.
Poi un messaggio: “Ti amerò per sempre”.
Anch’io, Papì.
Per sempre.
47 Comments
Ho le lacrime agli occhi! Mi sono identificata nelle tue sensazioni ed emozioni. Sei riuscita, come sempre, a coinvolgermi. To be continued..
Grazie Dany! Già, to be continued… (aiuto!!)
Bellissima!!! Anche io ho brividi ovunque 🙂
Ho trovato il tuo post su “voglio lasciare il posto fisso” (perché sono in un momentaccio pure io: non ce l’ho più, ma non ho nessuna intenzione di ritrovarlo :D) e ora sto leggendo in giro…non sai come condivido le tue emozioni!!!
Grazie Estella!
E ora cosa farai? Progetti? Un abbraccio da Delhi!
No vabbé ma é una storia bellissima….♡♡♡♡ una buona notte cosí é il top!!!
Sono contenta che ti sia piaciuta! 🙂
Sono appena arrivata a Valencia. Sono sola in camera e ti leggo.
Ma come fai ad essere così serena quando parli di cose strettamente personali? Molti mi dicono che svelo troppo della mia vita, ma mai quanto te.
Ed è bello Eli, è bello quello che fai perché racconti di te, perché mi sembra di averti già incontrata.
La tua vita è un diario. Questo Blog.
aspettiamo il seguito eh!
Manu! Sei a Valencia? Che bello!
Serena io, quando scrivo cose così? Non proprio… Però io scrivo così, e non posso essere diversa. Quando mi prende l’impeto di scrivere lo devo fare, tirare tutto fuori. Credo sia importante essere onesti, le persone che leggono si possono rispecchiare, magari hanno vissuto o vivono le stesse cose e fa stare bene sentire che non si è soli.
Credo profondamente in questo: che noi che scriviamo abbiamo il dovere di scrivere la verità. Senza paure. Magari non tutto tutto, sia chiaro, ma la forza della scrittura sta proprio nel condividere i propri stati d’animo, le cose a volte assurde che ci capitano nella vita.
e allora vai !!!!!!!!!! si felice se il cuore chiama 😀
Fosse così semplice Andre sarei già su un aereo direzione La mia Africa!! 😀
Leggerti è una emozione. È bello che tu sia così spontanea!
Grazie Luci!! <3
Che racconto intenso ed emozionante (come anche la storia di cui parli).
Aspetto con ansia i racconti di questi mesi che verranno, allora!
Un abbraccio
Grazie Antonella!
Speriamo di avere ancora cose belle da raccontare.
Un abbraccio anche a te!
eh eh eh mi hai ricordato un sacco di cose, solo che il mio non si chiamava Papì ma Moncef ed era tunisino 😀
😀 Viva gli amori international!
Oh my god…. anche il mio cuore ha sobbalzato x l’emozione. mi sono rintanata in un angolo del laboratorio a lavoro per riuscire a finire di leggere tutto quello che hai scritto sperando che nessuno mi vedesse…. che emozione.
Che bello, Barbara!! 😀
Che storia splendida! Complimenti anche per le bellissime foto a corredo 🙂
Grazie Fabio! Erano state scattate con una macchinetta da poco, analogica (era il 2000), ma hanno il loro fascino.
Che storia meravigliosa!!!
Grazie Ughetta!! 🙂
Meravigliosa, la tua storia.
Meravigliose le tue parole, le tue frasi, le tue emozioni.
Mi ci sono rivista un po’, in quello che hai scritto: ho rivisto il mio colpo di fulmine, la difficoltà di una relazione come questa e mi è sembrato di risentire la parola scusa nel mio orecchio.
La mia storia, però, non è andata come volevo e, forse, da una parte, è meglio così.
Per te, invece, ti auguro che sia proprio come la desideri, nulla di più, nulla di meno.
Un abbraccio! 🙂
Ciao Enrica!
Grazie!
Se le storie finiscono è perché non era destino, e qualcosa di meglio e di diverso ci aspettava. Non è che sappia tanto cosa desidero in amore, in questo momento della mia vita. Forse non desidero niente, e quindi attendo leggera che qualcosa accada 🙂
Un abbraccio grande anche a te!
Hai così tanto da raccontare e lo racconti con tale leggerezza, con gli occhi di una bimba. Ti ammiro e stimo moltissimo e ti auguro di perderti ancora e ancora in terre sconosciute per poterti ritrovare ogni volta così, sempre più bella. Un abbraccio forte forte
Ma grazie Stefania!! E’ vero, a volte racconto con gli occhi di una bambina, sono fatta così 🙂
Grazie per le bellissime parole e l’augurio, che ricambio di cuore.
Un abbraccio fortissimo!
…ma non ci credo neanche, poi neanche!!! tu vai a finire in Gambia???? ha ha ha ha, vorrei vederti laggiu’……..tutta vestita a fiori. con il secchio sulla testa a fare acqua!!!! poi, cara, quella foto col coccodrillo ancora, ancora, ma…quei sandalini (o chiamali come vuoi) strafighi???!!! non è da te!!!! stonano un po!!! te li porterai anche in India??? se li hai ancora????? salutiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii e buona notte
Bilancia! Non mi conosci bene! L’Africa e la sua semplicità sono la mia dimensione, ci sono andata tante volte, di cui una in missione, era il mio posto.
Riguardo alla foto col coccodrillo, ah ah!! All’epoca (28 anni) mi vestivo così, quasi solo di nero e con i saldali a zeppa. Niente scarpe basse. Sempre le zeppe, e quindi mi hanno seguita anche in Gambia ah ah! Oggi non sarebbe da me assolutamente!! 😀 A meno che non mi trovi di nuovo un fusto altissimo allora potrei cominciare a rimetterli… ma non in Africa!
No no in India solo infradito! Che poi quei sandali là me li avevano rubati in Albania, precisamente la figlia della mia vicina di casa che era entrata dalla mia finestra mentre io non c’ero.
Buona giornata Bilancia mia!
Avere il coraggio dei propri sogni….. io non l’ho avuto e ora…. tutto mi sta logorando.
Con la sola voglia di poter partire e cercare di rincorrere tutto quello che mi sono lasciata scappare.
Bisogna essere sempre forti nelle nostre scelte e capire che quello che abbiamo fatto era quello che veramente volevamo.
Luisella il tuo commento qui è bellissimo e ti ringrazio di cuore per averlo lasciato. Mi aiuta a riflettere su ciò che ho fatto e sulle scelte ancora da compiere.
Non si può rincorrere ciò che ci siamo lasciati scappare, ma tentare di costruire nuove cose, adatte a quello che siamo diventate oggi.
Sono speranzosa, e che per me e per te ci possa essere un futuro non di rimpianti ma di gioia e coraggio.
Speriamo davvero, anche io sono di Torino e chissà che un giorno non ci incontreremo per fare un felice resoconto. Auguri per tutto.
che meraviglia! la frase più bella però è: credevo a tutto e soprattutto all’amore.
Grazie Patty! 🙂 🙂
Ho appena finito di fare colazione col te caldo e ora un brivido freddo dopo averti letto. Sei unica!!! Adoro il tuo modo nostalgico d raccontare la vita. Je t adore!
Grazie Laura! De meme que moi! 😀
Mamma mia, Eli! Mi hai lasciata senza parole, e mi hai anche ricordato una situazione magica… (e comunque: scrivi, scrivi!). 🙂
Che bello aver lasciato senza parole Grazia Gironella: una scrittrice senza parole è un evento più unico che raro! 😀
Ok scrivo scrivo!! Mi sa che devo puntare di più sull’amore, nella mia scrittura…
Ciao Eli,
che bello immergersi nella lettura dei tuoi post! questo poi, sull’amore africano è particolarmente intenso e vero, forse perchè l’amore risuona dentro ciascuno di noi e ci rende co-protagonisti (virtuali) di storie come questa… Grazie 🙂
Ciao Lulù!
Grazie, sono contenta che ti piacciano, soprattutto questo post in cui ho messo tutta la passione che ho 🙂 Non si può rimanere indifferenti all’amore…
Un abbraccio!!
Sono l’unico mascheto qui, ma mi sono commosso lo stesso anche io. Forse perché anche io ho il cuore infranto? Però spero che mi passi presto, la voglia di andare avanti non mi manca.
Certo però che dopo tutti questi anni, dev’essere stata proprio… unagrandestoriadamore!
Ciao Marcus!
Di solito quando si ha il cuore infranto si è più sensibili. Io quindi dovrei esserlo 365 giorni all’anno :p
Sì è stata una grande storia d’amore e ancora non so/sappiamo come andrà a finire quindi stay tuned!
Ho le lacrime agli occhi! Grazie per la tua autenticità.
Ciao Chandana, grazie!!
Politicamente scorretta?? E parli di razzismo come una cosa negativa quando è il simbolo del politicamente corretto! Più che scrivere dovrescri iscriverti a scuola.
Buongiorno Ale,
prima di commentare con rabbia bisognerebbe sempre informarsi. Il termine “politicamente scorretto” può avere un’accezione negativa o positiva, a seconda di come la intende l’interlocutore.
Dal vocabolario Treccani-Grammatica italiana: “L’espressione politicamente corretto è un calco dalla locuzione angloamericana “politically correct”, con cui ci si riferiva in origine al movimento politico statunitense che rivendicava il riconoscimento delle minoranze etniche, di genere ecc. e una maggiore giustizia sociale, anche attraverso un uso più rispettoso del linguaggio.
In italiano rientrano nell’uso politicamente corretto del linguaggio una serie di atteggiamenti che portano a:
– evitare il linguaggio cosiddetto sessista, ad esempio attraverso l’impiego di forme non marcate dal punto di vista del genere (diritti della persona al posto di diritti dell’uomo);
– evitare espressioni che evocano discriminazione nei confronti di minoranze etniche (come negro o giudeo) e di categorie con svantaggio fisico (ad esempio handicappato, cieco, nano a cui andrebbero preferite espressioni come diversamente abile, non vedente, persona di bassa statura);
– evitare in generale espressioni tradizionalmente connotate in modo discriminatorio, ad esempio per quanto riguarda i nomi delle professioni (come bidello o becchino, a cui si dovrebbero preferire espressioni neutre come operatore scolastico e operatore cimiteriale).”
C’è però anche un’altra accezione, ed è ovviamente quella che intendo io quando, nella mia biografia in calce ai miei articoli, ho scritto di essere politicamente scorretta (politically incorrect), intendendo con questa espressione schiettezza e coraggio di dire le cose come sono. In alcuni casi, ad esempio, il politicamente corretto ha istituzionalizzato il sentimento di vergogna delle categorie protette.
Non è il caso quindi di iscriversi a scuola, ci si può tranquillamente informare e istruire leggendo di più, cosa che, di questi tempi, mi auspico tante persone possano fare, essendo costrette a stare in casa. Ti consiglio dunque la lettura del libro “Politicamente corretto – Storia di un’ideologia” di Eugenio Capozzi (Marsilio). Potresti trovare spunti interessanti, e impegnare così il tempo in modo più utile anziché venire sul web a sfogare rabbia repressa con espressioni offensive. C’è modo e modo di dire le cose. A scuola mi hanno insegnato anche questo.
Saluti.
Bellissima risposta Eli! Come dici alla fine del tuo commento, c’è modo e modo di dire le cose e se non si sanno, meglio informarsi prima di fare i leoni da tastiera. Ma purtroppo in questo periodo tanta gente è a casa senza nulla da fare e decide di sfogare le proprie frustrazioni e la propria cattiveria online.
Grazie Chiara! Ciò che si è veramente, ora viene fuori… ma c’è sempre la possibilità di migliorarsi e tirare fuori la bontà che c’è in ognuno di noi.